Sei anni fa se ne andava Omar Calabrese.
Scrittore e saggista, oltre ad essere uno dei più noti semiologi italiani, è anche l’allievo prediletto di Umberto Eco. Uomo di forti passioni, dopo una parentesi politica come fondatore dell’Ulivo, come consigliere comunale a Bologna e assessore alla cultura di Siena, si rifugia a vivere a Monteriggioni, deluso dalle volgarità di alcuni personaggi pubblici, come rende manifesto nel duro pamphlet Come nella boxe (Laterza, 1997).
Nonostante la malattia si palesi fin da giovane, egli vi convive con un forte accanimento e con una continua voglia di fare. Adesso che non è più tra noi, è necessario lavorare attraverso la memoria collettiva per ricostruire le svariate facce di un personaggio non comune, che ha dato un grande contributo alla cultura italiana. Per rendergli omaggio, possiamo ricordare alcuni titoli delle sue pubblicazioni, da leggere ex novo o semplicemente rileggere: “Semiotica della pittura” (1980), “Come si vede il telegiornale” (1980, in collaborazione con Ugo Volli), “Il linguaggio dell’arte” (1984) e “La macchina della pittura” (1985). Nel 1987 pubblica “L’età neobarocca”, un’originale analisi e proposta di interpretazione in chiave barocca dell’attuale condizione umana.
Grazie alle sue opere, Omar Calabrese non morirà mai.
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